La Galdus è uno degli enti di formazione professionale tra i più importanti del nostro Paese e ha sede a Milano. Qui i giovani imparano un mestiere, ma anche gli adulti hanno la possibilità di aggiornare le proprie competenze. Qui le imprese trovano le risorse umane che cercano, anche con le loro Academy ospitate dentro la scuola e qui chi è in ricerca di un’occupazione è aiutato a trovarla.
Sono stato nel loro campus in via Pompeo Leoni e sono rimasto sbalordito. Scava scava, ho scoperto una storia straordinaria che ho voluto raccontare, con un sottofondo musicale… In un libro? Provare per credere. Ecco le radici di questa avventura che ho raccontato nel romanzo La strana orchestra, il trentesimo libro della mia storia di narratore. Per capire la Galdus bisogna risalire al dicembre del 1975…
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Una mattina di quegli stessi giorni suonò la campanella del termine delle lezioni di quel giorno nella scuola media Francesco d’Assisi alla periferia di Milano, in via Dalmazia 4. Un giovane sacerdote notò il bidello chino sul pavimento, intento con scopa e paletta a raccogliere i cocci di vetro di alcune finestre andate infrante.
“Che cosa è successo?”
“Li vede quei sassi sul pavimento? Li ha tirati qualcuno… per passare il tempo!”
Il sacerdote ebbe un presentimento.
“Secondo lei chi può aver tirato così deliberatamente questi sassi per rompere i vetri? E poi, sinceramente, non riesco a capacitarmi perché ce l’abbiano proprio con questa scuola…” Aveva trentacinque anni don Giancarlo Cereda, insegnante di religione in quella scuola, e da poco aveva festeggiato i suoi primi dieci anni di ordinazione. Fece quella domanda soppesando e passando da una mano all’altra i grossi sassi che nel frattempo aveva sollevato da terra.
“Don Giancarlo…, ma si stupisce? Ha visto che ragazzi girano qui intorno? Non vengono più a scuola e non fanno nient’altro che passare il loro tempo nella noia e nell’ozio. Riempiono l’abbandono nel quale vivono cercando qualcosa che dia loro qualche brivido di vita, no? E magari si accompagnano con i più grandi che si drogano. Sapesse… molti di questi li ho visti entrare e uscire da questa scuola per poi andarsene via per sempre.”
Aveva ragione il bidello. Don Giancarlo uscendo di scuola per fare ritorno alla sua casa – la parrocchia di San Galdino a poche centinaia di metri da lì, dove operava come coadiutore di don Giuseppe Rimoldi – aveva notato più volte quei ragazzi sbandati, a gruppi o solitari, ragazzini delle medie mescolati con i più grandi che proprio non ne avevano voluto sapere di proseguire gli studi… Aveva scoperto qualcuno di loro gettare sassi contro la scuola ma non aveva avuto il sentore che quei gesti potessero provocare danni seri. “Ragazzate…” aveva pensato.
Fino a quel momento, fino a quei sassi che avevano centrato i vetri della scuola, non aveva riflettuto più di tanto sul problema. Il suo pensiero e la sua azione, oltre che alle lezioni, si erano concentrati sugli allievi più in difficoltà nell’apprendimento. Per stare loro vicino aveva organizzato un doposcuola in parrocchia grazie all’apporto generoso dei giovani che già tenevano catechismo.
Ora, però, davanti a quei vetri infranti e ai sassi che don Giancarlo soppesava in mano – sentendo tutto il peso del “nonsenso” – e che altre mani di ragazzi avevano scagliato contro la scuola, contro la “cultura”, contro i “professori”, contro “gli adulti”, sentì montare dentro di lui un sentimento di tristezza, ma anche di dolore. Anzi, mentre cercava di dare un nome a quelle sensazioni, gli venne la parola giusta: provava struggimento, sì, uno struggimento carico di passione per quei ragazzi che avevano pur il diritto di crescere bene, nella fiducia in sé stessi, nel rispetto degli altri, in una vita che avesse significato, con un obiettivo, realizzarsi nella vita attraverso lo studio e il lavoro…
Il bidello, appena terminato di pulire tutto, fissò in faccia il sacerdote:
“A che cosa sta pensando, professore?”
“Penso a questi ragazzi che hanno abbandonato la scuola. A loro non è restato altro che la strada, senza che ci sia qualcuno che li segua.”
“Ci vuole qualcuno come lei che li sappia amare”, fu la risposta del bidello. Don Giancarlo lo ringraziò della stima e se ne tornò in parrocchia pensando a tutte quelle cose.
Nei giorni a venire don Giancarlo non smise di rimuginare su quell’episodio che gli aveva aperto gli occhi su una realtà di povertà umana, materiale ma anche e soprattutto e interiore.
Trascorse le festività natalizie e festeggiato l’arrivo del nuovo anno, il giovane sacerdote riprese con le lezioni di religione a scuola. Più di una sera si scoprì con un pensiero dominante in testa: i ragazzi di strada. ‘Bisogna fare qualcosa per corrispondere alle loro necessità, magari trovando qualche minima occasione di lavoro che li aiuti a valorizzarsi e che permetta loro anche di aver qualche soldo come gratificazione’, rimuginava tra sé.
Finché le idee si chiarirono, anche con le preghiere, recitando il breviario la mattina e la sera, o durante la santa messa, chiedendo consiglio a Dio, chiedendo l’indicazione di una strada.
Uno di quei giorni don Giancarlo si informò se avesse maturato tempi e contributi utili per andare in pensione con il minimo di anzianità. Sì, gli risposero agli uffici dell’Inps, aveva già raggiunto i 19 anni e sei mesi di contributi necessari per il minimo pensionistico. Ma per fare che cosa?
Una sera don Giancarlo si confrontò con il suo parroco. Gli spiegò per filo e per segno il bisogno che aveva scorto tra quella gioventù di periferia della grande Milano. Poi, prendendo in mano un bicchiere colmo di vino, lo alzò in alto come si fa per fare un brindisi e disse: “Voglio lasciare la scuola. Voglio andare sulla strada a raccogliere questi poveri ragazzi per aiutarli a trovare un senso per la propria vita. Mi spinge l’amore verso di loro, don Giuseppe, e credo che questo sarà sufficiente a farmi andare avanti su questa strada per il tempo necessario. La ragione di questa mia decisione è dentro il mio cuore. Spero tu condivida questa mia decisione e mi permetta di cominciare questa attività tenendo la parrocchia come punto di riferimento.”
Ho scritto questa storia perché i giovani e gli adulti che vivono, studiano e lavorano alla Galdus sappiano come è nato tutto ciò che vedono oggi realizzato davanti ai loro occhi. E lo apprezzino.