L’IMPRESA di Cristiana – Quando TUTTO nasce da UN’UNITA’ SPECIALE tra amici

Cristiana Poggio in un intervento al Meeting di Rimini 2023

“Per me il 1987 è un anno caotico, tumultuoso. Io mi laureo a febbraio. Sogno di fare carriera universitaria, aspiro al dottorato in storia… Sergio , intanto, termina il servizio militare a marzo e si laurea a luglio, a pieni voti. Trova subito lavoro e decidiamo di sposarci. Convoliamo a nozze il 20 settembre e in quello stesso mese anche io trovo lavoro. Si tratta di un istituto superiore privato, uno di quegli aridi esamifici che proliferano in città ma… nonostante questo, ho l’occasione di mettere alla prova il mio sogno di fare l’insegnante, quel dare qualcosa di me ai ragazzi che era dentro l’ideale di me bambina. Dunque siamo sposati, abbiamo un lavoro, già una bella casa, ma… insieme con gli amici che la morte di Marco ha reso così radicalmente uniti, sentiamo il rischio di imborghesirci.” E’ Cristiana Poggio a parlarmi così di sè in una delle lunghe interviste che le ho fatto per portare l’entusiasmante racconto della sua vita nel mio ultimo libro (scritto con Silvia Lessona) dal titolo “Nel nome delle donne”.

Chissà che cosa possono vedere in questa parola e nel suo rischio – imborghesirsi! – le giovani donne dei nostri tempi? Cristiana – oggi una delle più prestigiose imprenditrici italiane nel settore della formazione e dell’educazione dei giovani, specialmente dei più “svantaggiati”, presidente dell’agenzia formativa Immaginazione e Lavoro, che fattura 15 milioni l’anno e ha formato migliaia di giovani – spiega quel timore di “imborghesirsi” con l’inquietudine esistenziale che dominava i giovani della fine degli anni 70: “Siamo figli del ’77: quel secondo, e violento, periodo della contestazione giovanile ha su di noi un effetto diverso da quello che coinvolge i gruppi extraparlamentari di allora, ma l’avversione a un modo di vivere egoistico e consumistico è la cifra di un qualcosa che ci accomuna a loro e che, per così dire, morde le nostre aspirazioni di vita adulta. Così, capita che il nostro amico Ettore che in quel momento vive a Milano ci consiglia di confrontarci con un certo Ivan. E’ lui a proporci di lanciarci in un servizio sociale che a Milano si chiama Centro di solidarietà. Si tratta, in sostanza, di replicare a Torino quel modello – un aiuto a trovare lavoro. Non ci sono ancora le agenzie interinali e di intermediazione….”

E’ il punto di partenza di un cammino che arriverà, per diverse tappe, dalla trasformazione della preesistente cooperativa Immaginazione e Lavoro – più di trent’anni fa – fino allo stretto legame tra questa agenzia formativa e la celebre Piazza dei Mestieri a Torino, che quest’anno compie vent’anni di attività. Modello che è stato replicato a Catania e più recentemente a Milano. La storia di Cristiana Poggio raccontata nel mio libro dimostra che un imprenditore, nel caso suo un’imprenditrice, può avere a un certo punto della sua vita la “vision” dell’idea strategica della sua impresa – e ce l’avrà Cristiana, eccome, a Valencia, un giorno – ma che questa si realizza per effetto di un’unità tutta speciale con altre persone, “gli amici di Cristiana”. Per fare un’impresa bisogna essere almeno in due, dice il mio amico e grande imprenditore Marco Boglione, ma la storia di Cristiana dimostra che è ancora meglio se l’impresa nel suo esistere nasce e permane grazie a un’unità incredibile – per certi versi miracolosa – di tante persone. Un’unità generata, per Cristiana e i suoi amici, da due grandi prove e da un suggerimento inaspettato di un grande prete… Qui di seguito un’anteprima. Potrete leggere il racconto completo di Cristiana Poggio acquistando il libro “Nel nome delle donne – Sette racconti: quando in azienda la presenza femminile si fa decisiva” (Rubbettino).

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Il racconto di Cristiana si sviluppa in un dialogo con un’amica spagnola, Carmen, che è venuta a trovarla a Torino. Il loro dialogo avviene al ristorante della Piazza dei Mestieri di Torino.

“Che cosa c’entri tu con tutto questo?” mi domanda a bruciapelo, mentre sull’ascensore siamo una di fronte all’altra. E’ come se volesse entrare subito nel discorso che le interessa: vuole sentire, capire, conoscere per approfondire, le persone che hanno “concepito” questo luogo nel cuore di una grande città. Sì, concepito, è la parola giusta. Io, mi sento come una mamma di questa storia. E Dario, il mio grande amico, un po’ come il padre. Lui l’imprenditore, io la docente, l’insegnante. Quello che sognavo di fare da piccola. Che mistero! E così, la sua domanda, mi costringe ad andare subito a fondo della questione. Che c’entro io? La guardo, accarezzo gli orecchini che ho scelto di indossare oggi, sorrido e le dico: “Ho tutto il tempo che vogliamo per risponderti, andiamo a pranzo.

Accomodati Carmen. A una domanda così radicale, non posso risponderti che con dei fatti. Sono qui, ho messo su questo luogo e continuo a guidarne la proposta educativa, innanzitutto perché non sono morta in un incidente d’auto.” Carmen mi guarda con due occhi così. “Non sapevo niente…” “Ascoltami, è andata così. Avevo 23 anni, inizi di settembre del 1985…”

   “Stavamo tornando a casa in auto da una breve vacanza organizzata per un folto gruppo di ragazzi che nell’estate avevano superato l’esame di maturità. Con me in macchina – una Lancia Prisma imprestatami da papà per l’occasione – c’erano tre amici, don Primo, seduto a fianco a me, Monica e Anna, sul sedile posteriore e con loro mio fratello Gianluca. Avevamo appena lasciato la strada che chiamano Gardesana: procedevo tranquilla, e non stavo neanche sorpassando, si chiacchierava tra noi. A un certo punto, la strada che percorro gira verso destra, ma io, inspiegabilmente (è un mistero, ancora adesso per me) vado dritto… Proprio in quel momento sta passando un Tir nel senso opposto di marcia, e non ho scampo. Sento il mio amico prete urlare ‘Attenta!’, ma subito dopo ci investe un rumore assordante, l’impatto contro il mezzo pesante.”

Il mio incidente si verifica il 4 settembre di quell’anno. L’anno dopo, stesso giorno, stesso mese, muore uno dei nostri  più cari amici. Marco. Non ero ancora completamente ristabilita. Venivo da una lunga convalescenza: dopo i quaranta giorni di gesso quattro mesi di stampelle senza appoggiare il piede. Ero arrivata all’estate con una evidente inabilità a fare qualsiasi tipo di gita. Immaginati in montagna.”

Quel pomeriggio, con l’angoscia per quella notizia – “Uno di noi è caduto” – attendiamo l’arrivo degli altri, per saperne di più.  Finché un amico, Gianni, ci dice senza mezze parole la verità: “è morto Marco”. Nella compagnia di amici nella quale stavamo crescendo avevamo imparato la confidenza con Dio, e Dio era una parola che sentivamo profondamente concreta. E io, a domandarmi: ‘Io, l’anno scorso, sono stata salvata. Signore, perché hai lasciato me e invece hai preso Marco? Potevi prendere me, non mi hai preso. Ma allora, se io sono qui, qual è il mio compito nella vita?’ Capisci Carmen che razza di domande? A 24 anni!

 “Per dirla con un eufemismo, eravamo tutti un po’ incazzati col buon Dio, perché si era preso Marco, che era il più simpatico, il più brillante. Un mese dopo viene a Torino don Luigi Giussani per un incontro con la comunità di Comunione e Liberazione. Prima dell’assemblea con lui, noi amici di Marco ci chiudiamo in casa mia in quattro stanze separate a scrivere la domanda che avremmo voluto fargli. Alla fine mandano avanti me, “falla tu la domanda”, e io dico di sì, come ho imparato a fare – sempre – da mio padre. Mi avvicino al microfono e dico: ‘Noi vogliamo capire da te che cosa ci chiede il Signore che già non si è preso’. E poi aggiungo: ‘Stiamo però assistendo a un miracolo, la nostra unità’. Eravamo diventati semplicemente più amici, ma l’avevamo detto così. Giussani ci guarda e dice: ‘Sono più commosso che impacciato di fronte alla domanda della nostra amica, perché ciò che ci chiede il Signore con questa morte è proprio il miracolo dell’unità, impossibile agli uomini e possibile a Dio.’ Poi, a un certo punto, mi guarda e dice: ‘Sia che tu faccia la mamma, sia che tu faccia l’imprenditrice, sia che tu faccia opere sociali si vedrà questa unità.’  Per me poteva aver detto, farai la poliziotta, l’infermiera, che so… io, per esempio, volevo fare la mamma e volevo fare l’insegnante. Da lì, questo aspetto dell’unità da lui richiamata in quella assemblea, è stata una delle cose più decisive della mia vita. Faticosissima talvolta, perché impossibile agli uomini con un atto di volontà, ma decisiva. Questa cosa, tu mi capirai, è da guardare: come è che Gesù – quell’uomo vissuto duemila anni fa – è questo fattore di unità anche oggi? Vedi tutto questo che c’è qui? Quell’unità di cui parlava don Giussani si è incardinata in tutte le cose che poi questo gruppo di amici ha fatto.’

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