Non avrei mai pensato – né voluto – di scrivere la storia di un mio amico finito nelle patrie galere. Ho fatto il volontario penitenziario in carcere per dieci anni, dal 2006 al 2016, ininterrottamente, ma ho sempre desiderato tenere distanti la mia attività editoriale e le iniziative caritative nelle quali ero impegnato. Ma ci è voluto Oreste a farmi cambiare idea, tanta era l’amicizia che ci stava legando quando mi disse: “Voglio raccontare la mia storia, voglio che la scrivi tu”. Come potevo dirgli di no? Così abbiamo cominciato a incontrarci non solo per mangiare un boccone insieme e chiacchierare ma anche per raccogliere i suoi ricordi. E’ così che è nato il mio libro Il rapinatore “gentile” – L’avventura di Oreste: le banche, il carcere e il senso della vita, carico di umanità, carico di riflessione e anche di fatti clamorosi, avventurosi. E’ un libro che fa ancora tanto discutere. Ecco qui brani dall’introduzione. E’ Oreste che parla.
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Mi sono spesso domandato – soprattutto da un certo periodo in poi della mia vita – perché mai avessi scelto di diventare un rapinatore di professione. A quasi settant’anni non ho trovato ancora una risposta pienamente esaustiva rispetto alla profondità della domanda. Il male, dentro il quale ci caliamo, infatti, è come un pozzo molto oscuro nel quale si scende per diverse ragioni e per complesse circostanze e dal quale è difficile risalire. Una realtà dalla quale – questo “pozzo” – si può, però, venire faticosamente fuori dando credito al desiderio e al coraggio di guardare da un’altra parte, diversa dal buio che domina quella cavità scavata nella “terra” di ognuno di noi, uomini e donne. Desiderio e coraggio che possono solo essere sostenuti dalla presenza di persone che ti vogliono bene, che sanno guardano ben oltre la tua sventurata e fragile volontà di risalire. C’è gente che allunga il braccio e ti tira su dal “pozzo” oscuro, magari calandosi qualche metro in giù, verso di te, in mezzo a quelle tenebre, senza aspettare che tu abbia fatto il primo passo lungo quella scaletta. E’ quello che è successo a me.
Perché abbia ostinatamente vissuto di rapine per decenni, ecco… è una domanda da almeno un miliardo di euro! Un’ostinazione cresciuta persino dentro i fallimenti di questa scelta di vita. Infatti, siccome non sono Diabolik, non l’ho sempre fatta franca. E così, ho vissuto molta parte della mia esistenza dentro il carcere, assommando nel tempo più o meno trent’anni di gattabuia. Mica pochi… Ma anche quella è stata vita. La mia vita. E ce n’è da raccontare…
Il punto di partenza per una riflessione è che io sono nato e cresciuto in una buona famiglia – papà commerciante di bestiame, mamma casalinga, due fratelli più avanti in età di me, sebbene di poco, che sono sempre stati, soprattutto il più grande, un faro, esempi positivi, come doveva essere nelle famiglie di una volta…
Sin da ragazzo, e poi da giovane, avevo aperte di fronte a me strade e condizioni sufficienti per un’esistenza normale, quieta, come per tanti della mia generazione… un’esistenza prevedibile, anche – devo essere molto sincero a questo riguardo – terribilmente prevedibile. E invece no: quelle strade, da un certo punto in poi della mia vita, non le volli mai più imboccare, se non per brevi tratti, a tutto vantaggio di altre, più adrenaliniche, più appassionanti – e anche più redditizie, si capisce…
Avevo un bel mestiere tra le mani, facevo l’idraulico. Mi ero pure innamorato di una bellissima ragazza e di lì a non molto l’avrei sposata. Da quel matrimonio nasceranno quattro splendidi figli. Eppure, intersecati e attorcigliati a questo fusto – lavoro e famiglia – erano contemporaneamente cresciuti altri rami. Che mistero! Che problemi potevo avere? Quale fascino si alimentava in me ogni volta che vedevo una banca o assaltavo un furgone portavalori? Scelsi quell’altra strada…
Ho compiuto rapine su rapine, alcune memorabili, ma senza mai fare del male a nessuno, e senza mai sparare un colpo. E se le cose non andavano per il verso giusto, e mi inseguivano, e mi sparavano, io fuggivo, ma non sparavo. Ai “tempi d’oro” ho compiuto anche più di una rapina a settimana. Ero sempre pronto: allenato, capace di agire con mente rapida, sangue freddo e con cortesia infinita nel trattare le mie “vittime”. E guadagnavo bene… In tutto questo sono anche riuscito a tenere lontano la mia famiglia da queste mie attività.
Non molti anni fa, però, durante il lungo periodo di carcerazione successivo alla mia ultima rapina, accadde qualcosa di imprevisto, che sparigliò le carte del mio destino. Infatti iniziò la mia vita nuova, sia attraverso l’incontro con persone divenute per me sempre più significative sia attraverso la cultura, la lettura e lo studio. Sullo sfondo c’era sempre quella domanda: perché? Perché avevo vissuto in quel modo fino a quel momento? Per un “fato”? – cioè quasi obbligato da chissà chi a essere quello che ero stato – oppure per un “destino”, dove io avrei potuto giocare la mia libertà?
Perché ho fatto delle rapine una professione? Perché vi ho visto qualcosa che poteva essere per me, per la mia soddisfazione di uomo. E da lì ho vissuto la mia avventura, la mia storia, la mia esperienza, per certi versi veramente drammatica.
Mentre rifletto su tutte queste cose mi convinco sempre di più che devo guardare questa mia avventura con spirito positivo. Perché l’esperienza parla, ti fa capire, non bara mai… E allora è possibile anche cambiare.
Un faro ha guidato le mie scelte: ovunque vivi, ovunque sei – mi sono sempre detto – non abbruttirti. E tendi oltre. Oltre la siepe, come ci ha insegnato Leopardi. Io oggi non posso andare in giro per il mondo perché ostinatamente non mi è data la possibilità di andare fuori dal nostro Paese, pur conducendo una vita integerrima e di intenso lavoro. Eppure viaggio, conosco, studio, mi appunto pensieri ed esperienze grazie alle nuove tecnologie di comunicazione. Sono libero, ugualmente. Come avevo imparato ad essere libero anche dentro le mura di un carcere.
Prima di cominciare a raccontare per filo e per segno la mia vita, posso dire una cosa forse un po’ scandalosa? La dico sottovoce, perché quasi me ne vergogno: forse doveva proprio succedermi quello che ho vissuto, in mezzo anche a tante sofferenze, per poter capire di più la vita e il suo significato.
Con questa consolazione nel cuore trascorro oggi le mie giornate lavorando di buona lena – dalle cinque del mattino fino a sera – per una grande azienda commerciale, guidata da mio fratello e grato a lui che mi ha sempre aperto le braccia accogliendomi e dandomi opportunità di lavoro. Segno, questo, che bisogna avere fiducia nella vita, perché essa nasconde tra le sue pieghe – continuamente – gesti di gratuità che possono rilanciarti…