Chi ricorda il Festivalbar, la grande rassegna canora inventata da Vittorio Salvetti? Nelle parole di Chiara Salvetti, protagonista di una delle sette storie del mio libro “Nel nome delle donne”, storia scritta dalla mia grande amica Silvia Lessona, c’è anche una documentazione storica personale di quell’evento che ha lasciato il segno nella storia della canzone italiana. Ecco le parole di Chiara tratte dal racconto. Mentre qui di seguito potrete ammirare una bella gallery di fotografie, in ordine sparso e non cronologico, sulla sua vita.
“Acqua azzurraaaaa, acqua chiaraaaa, con le mani posso finalmente bere, ta ra ta tà…Mio zio, Vittorio Salvetti, l’inventore del Festivalbar, era un caro amico di Lucio Battisti, per lui aveva un affetto genuino, trascorrevano molto tempo insieme e penso fosse il preferito tra tutti gli artisti che aveva coinvolto nella manifestazione. Una volta non era come oggi, che i cantanti arrivano cinque minuti prima di salire sul palco con le loro macchinone di lusso, cantano e poi via, partono e chi li vede più. Quando mio zio creò il Festivalbar ci passava le giornate intere con i cantanti. Ricordo cene interminabili, chiacchere, confessioni, istanti di vicinanza, di calore, in parole povere… di rapporti umani.
Già il titolo della gara canora era ispirato alle due parole: festa più bar. L’intento di mio zio era quello di riportare la musica direttamente nei luoghi dove le persone trascorrevano il loro tempo in modo piacevole, ovvero i bar e, di conseguenza, i loro jukebox. Mi ricordo di interi pomeriggi in cui mio papà, mia mamma e alcuni dei suoi sette fratelli, si dedicavano alla preparazione di alcuni aspetti della kermesse nella tavernetta al piano interrato di casa nostra, una villetta in una zona residenziale molto tranquilla della periferia di Padova. Lì c’era un tavolo lunghissimo sul quale dividevano e imbustavano i 45 giri delle canzoni del Festivalbar inviati a casa nostra dalle case discografiche e che andavano successivamente spediti in tutti i bar della penisola. Durante gli anni in cui io e i miei due fratelli eravamo ancora piccolini e non avevamo accesso alla tavernetta perché dovevamo fare i compiti, mia mamma Enrica si collegava con noi attraverso un interfono che aveva fatto installare così poteva sapere se là sopra, ovvero in casa, andasse tutto bene.
Nei primi anni della manifestazione là sotto si costruivano anche parte delle scenografie poiché all’inizio non c’erano fondi sufficienti. In quel grande spazio venne ideato e costruito il famoso applausometro, quel tubo colorato e numerato con la luce all’interno che, a seconda dell’intensità degli applausi, misurava e decretava il brano che il pubblico dal vivo gradiva di più. In seguito riuscimmo a farlo costruire professionalmente grazie ad alcuni sponsor. Mi ricordo di due di essi, la Omsa e Denim, che, tra l’altro, e per mesi, ci inondarono la tavernetta di collant e profumi.
Per molto tempo il Festivalbar fu gestito da una conduzione familiare, la nostra, che aveva sede in centro a Padova. Mio padre, Ezio Salvetti, che lavorava in banca, si occupava part time tutto l’anno della parte finanziaria mentre io, fin dagli anni delle scuole superiori, iniziavo a dare una mano già a partire dal mese di maggio. Facevo da interprete per gli artisti stranieri o per i loro manager in modo da sfruttare le lingue che stavo studiando e davo una mano con i comunicati stampa e con la logistica. In quei due campi si specializzò poi mia sorella Francesca che successivamente entrò a lavorare a tempo pieno nella società.
Si tratta di una macchina molto complessa… poiché, oltre al reclutamento dei cantanti e dei service, erano necessari tutti i permessi del Comune, dei Vigili del fuoco e delle forze dell’ordine. E tutto ciò avveniva per ogni sede diversa che da giugno a settembre ospitava le serate del Festivalbar. Erano di norma cinque o sei, ma la tappa finale era sempre all’arena di Verona. Ogni anno però venivano cambiate le location intermedie, perché il desiderio di mio zio Vittorio era quello di portare la musica direttamente alle persone e contemporaneamente valorizzare dal punto di vista culturale i beni storici delle piazze prescelte. Ho ricordi indimenticabili di Villa Manin a Codroipo in Friuli, di Prato della Valle a Padova, di Villa Contarini a Piazzola sul Brenta, di Piazza del Plebiscito a Napoli. Non tutti i luoghi erano adatti fin da subito, bisognava infatti avere il posto necessario per il palco, il pubblico, i camerini. Quando c’erano le serate vere e proprie mi occupavo della distribuzione dei pass da consegnare ai vip o ai giornalisti, e quante discussioni dovetti fare con i miei amici che non si capacitavano che io non glieli potessi dare! Ai miei rifiuti mi facevano capire che pensavano di me che facessi la preziosa e mi facevano pesare di essere una privilegiata, ma io non mi sentivo così e comunque a ricordarmelo c’era sempre mio padre che mi ammoniva severo:
– Noi siamo delle persone normali, non devi darti delle arie, portiamo un nome famoso, quindi tienilo a mente, sii umile e comportati seriamente -.
Era un mondo che appariva luminoso e brillante dagli schermi televisivi ma dietro le quinte c’erano grandi zone d’ombra; ne ho visti tanti di artisti trascinati sul palco perché non ce la facevano a salirci con le loro gambe. Mio papà vegliava sulla mia sicurezza e si adoperava in qualunque modo affinché io non potessi cadere vittima del loro fascino ‘maledetto’. Il risultato è che io alla fine sono cresciuta con i piedi ben piantati a terra, ancorata a valori forti, gli stessi che papà e mamma mi hanno trasmesso. Siamo sempre stata una famiglia molto operativa, rigorosa, che seguiva uno schema ordinato.”