Conservo e rileggo spesso con gratitudine la dedica che Stefania Peduzzi ha scritto in calce al mio libro L’impronta delle donne del quale lei è una delle sette protagoniste: “Grazie caro Adriano per avermi restituito la mia storia con tanta sensibilità, profondità e amore.” Steffy ha accettato di raccontarsi “senza rete” con grande onestà e sincerità e ne è nato un racconto che colpisce, che introduce a una umanità – quella di Stefania – la cui cifra è evidentemente “la ricerca della felicità”. Per questo leggere la storia di questa innovativa imprenditrice, cotitolare di Rustichella d’Abruzzo col fratello Gianluigi, ci aiuta a comprendere quale è la “pasta” di ogni uomo e donna, quale è quel fattore che è al centro di ogni azione umana, nel lavoro, nella famiglia, nelle scelte coraggiose, nelle cose che piace fare o nei sogni. La sua è una vicenda molto femminile, contrappuntata in gioventù da molti “no” ma che Stefania ha saputo trasformare in opportunità.
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Nel 1982, quando Gianluigi comincia la sua avventura in Rustichella d’Abruzzo con la valigia in mano e passando più tempo sugli aerei che a terra, io mi iscrivo all’Università, alla “Sapienza” di Roma. Ovviamente, non sono riuscita a convincere i miei a farmi fare Archeologia e mia madre mi impone l’iscrizione a Psicologia. Senza diritto di replica o di discussione. Quella doveva essere la mia strada. Che a me non piace. La prova – forse un segno del destino – mi arriva al primo esame. In quell’occasione rimango sconcertata dal comportamento del professore che mi esamina. Un pazzo, un isterico. Penso tra me, in quel frangente: “E questo sarebbe un professore che fa tesoro della psicologia per rapportarsi con gli studenti?” Io ho accettato il cambio di prospettiva di studi e di Facoltà, ma di fronte a quelle manifestazioni di isteria ho la prova che la cosa non fa per me. I miei genitori mi concedono di iscrivermi a Pedagogia, naturale sbocco per chi ha frequentato le magistrali. Eh già, ma quale ateneo frequentare?
Discussioni… Penso di andare a Roma. «Guarda bene», dice mio padre, «questo non è il momento di fare vacanze a Roma. Se vai lì troviamo un posto in qualche convitto di suore». «Arieccoci», penso…
«In alternativa, potresti iscriverti all’Aquila e così puoi fare su e giù tra là e casa». Scelgo L’Aquila, ma la verità vera è che non me ne frega proprio niente di Pedagogia! Frequento, studio, viaggio tra il capoluogo e Pianella, ma quando papà vede che non do esami mi pone l’aut aut: «Se non dai esami è meglio che chiudi con l’Università e allora dovrai iniziare a lavorare». Dove? Ma è chiaro: in Rustichella.
Inizio, dunque, a lavorare, nell’azienda di famiglia che, intanto, ha compiuto i suoi primi passi. Si affermano i primi mercati esteri, gli Stati Uniti, innanzitutto, come aveva ben preconizzato mio padre e a Pianella io comincio a entrare nei meccanismi della gestione dell’azienda. Faccio un po’ di tutto, sono la proverbiale fac totum, ma mi muovo con molto imbarazzo. Infatti, sin dall’inizio del mio lavoro in Rustichella mi sento come con una grande lente di ingrandimento addosso. Sono sempre quella da incalzare puntualmente. Mi occupo delle entrate e delle uscite di casa, ma ne esco pazza, non è roba che fa per me, sono poco precisa, e lì se sbagli un numero ti porti dietro un sacco di errori e allora bisogna ricominciare daccapo. Ricordo pomeriggi passati quasi in lacrime. Proprio non mi piace fare quel tipo di lavoro, ma nel medesimo tempo mi sento in dovere, come figlia, di accettarlo e svolgerlo. Scalpito anche sui tempi di lavoro, perché ho mantenuto la passione per la danza e alle 18 devo uscire se voglio andare ad allenarmi. Ma non è sempre possibile. Trascorro diversi anni con questa situazione indefinita e indeterminata nel mio ruolo in azienda.
Finché nell’89 avviene la svolta societaria, con la cessione delle quote dei fratelli Sergiacomo a mia madre e la conseguente attribuzione di queste stesse a mio fratello e a me. È il momento in cui Gianluigi ed io entriamo definitivamente nella compagine societaria. Lui ha 26 anni, io ventiquattro. La strada è segnata. E i mesi che seguono a quella svolta mi caricano di più convinta responsabilità.