Sono diventato amico di Carla Bosio senza rendermi conto che già la conoscevo. E che di mezzo c’era persino una frequentazione di sua sorella da parte di mia moglie dai tempi degli studi universitari. Insomma, la strada era spianata. Così, quando ci siamo incontrati in occasione di un convegno a Cuneo al quale mi aveva invitato come moderatore, ho avuto modo di presentarle il progetto di raccontare storie di donne divenute imprenditrici grazie alla stima dei loro mariti, compagni, soci, fratelli, suoceri… realizzato poi nel libro L’impronta delle donne. La sua mi era sembrata una storia perfettamente calzante con il progetto: Carla non aveva mai sognato di diventare imprenditrice ma, avendo sposato un imprenditore, il prosecutore della ditta Galfrè – Antipasti d’Italia, la proposta di diventare, un giorno, parte attiva di quella avventura, doveva potersela aspettare. Ed è quello che accadde. Ma lei?
*
Sono a casa. Davanti a me dei fogli bianchi. Nella mano una penna stilografica. Comincio a scrivere: ho deciso di mettere nero su bianco la mia storia. Una domanda delicata e premurosa ricorreva durante le piacevoli conversazioni e confidenze con mio suocero Mario (“il signor Mario” per i dipendenti della Galfré – Antipasti d’Italia, “nonno Mario” in famiglia). Una domanda alla quale non sapevo dare risposta. Sono dovuti passare più di dieci anni prima che mi ritenessi in grado di esprimermi. La domanda era: «Perché non vieni anche tu in azienda?»
La prima volta mi fu formulata nell’autunno del 1990 – lo ricordo bene – poco dopo la nascita del mio primogenito, Federico. Insegnavo lettere nelle scuole medie, con grande soddisfazione, lavoravo in quell’istituto – che adoravo – dove mi ero formata fin dagli anni del liceo, sentendomi come a casa. Perché avrei dovuto cambiare? Poco alla volta si fece più marcato l’invito a prendere una posizione rispetto a quella proposta («Allora, che ne pensi?») ed io stessa cominciai a sentirmi addosso quell’interrogativo, a portarmelo dentro, mentre ero a scuola davanti ai miei studenti, mentre ero a casa con i miei bambini (nel ’94 nacque il secondogenito, Alberto) e con mio marito, Maurizio, così come nelle faccende domestiche e con gli amici, nelle attività della parrocchia del paese e anche nelle mie preghiere a Dio. Eh sì… urgeva una domanda al Mistero “dove mi vuoi?” Un interrogativo che, momento dopo momento, assumeva anche 50 un fascino, un’attrattiva, perché aveva il sapore di un’affermazione di stima nei confronti della mia persona. E questo faceva indiscutibilmente piacere…
Mi trovai, dunque, di fronte a un bivio, senza averlo voluto. E questa era per me una novità assoluta. Mi ero spesso trovata di fronte a dei crocevia importanti, sin dall’adolescenza, come può essere successo a tante e tante altre ragazze della mia età. Ma sempre dovendo fare i conti con scelte possibili dipendenti unicamente da mie aspirazioni. Fino a quel momento infatti ciò che avrei potuto decidere riguardo al mio posto nel mondo, nel presente e nel futuro, ero stata io a cercarlo. Guardavo e ammiravo papà, medico condotto? Sin da piccola sognai di diventare anch’io medico come lui. Lo sentivo e lo vedevo suonare al nostro piano a mezza coda? Anch’io volli cimentarmi alla tastiera e suonai pianoforte con ardore per tanti anni. Volevo studiare psicologia al liceo? Decisi ben presto in cuor mio di dedicarmi – da grande – a questa scienza umana, per portarla nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Volevo fare la psicologa: feci una scelta conseguente per quel che riguardava gli studi universitari… ma mi tenni aperta la porta dell’insegnamento. Una volta laureata partecipai a un concorso che mi permise di applicare subito sul campo ciò che avevo studiato.
Andava tutto bene, ma accadde il classico imprevisto: una telefonata giunta a casa mi offrì l’opportunità di intraprendere una delle strade che avevo ipotizzato per il mio futuro, insegnare. Così si riaprirono per me le porte della scuola dove avevo frequentato il liceo, il mio amato istituto paritario, e mi sentii subito a casa. Insomma, tutto questo excursus fa capire che, dove vedevo sbucare una possibilità di realizzazione di me stessa, io lì, consapevolmente e intenzionalmente, districandomi tra i problemi che ogni strada possibile portava con sé, mi buttavo a capofitto. Come quando avevo desiderato e voluto i miei figli… In quel momento in cui mi si domandava “vieni a lavorare con noi?”, stava però avvenendo qualcosa di esattamente contrario alle dinamiche sulle quali si era incanalata la mia vita precedente. Non avevo mai pensato di andare a lavorare nell’impresa della famiglia di mio marito… La situazione mi apparve chiara e nuova rispetto alle volte precedenti: qualcuno stava provocando la mia libertà su un terreno fuori dalle mie previsioni e inclinazioni. Ero messa di fronte a un bivio al quale non avevo volutamente deciso di arrivare. A pensarci bene stava succedendo qualcosa di simile a quello che si prova quando ci si innamora, quando il fascino e l’attrattiva dell’altro ti si impone, non li hai cercati tu. Sì, ecco, mi stava succedendo qualcosa di assai vicino a un’esperienza di innamoramento: ero messa davanti a una possibilità per la mia vita indipendentemente da me. Mi era già successo incontrando Maurizio. Ma ora la cosa riguardava la sfera professionale della mia esistenza, non quella affettiva… Ma andiamo per ordine. Voglio raccontare per bene quello che accadde prima di quella domanda così discriminante: perché non vieni anche tu in azienda?